I NUMERI DELLA RETE, IL MONDO «BIANCO» & ALTRO ANCORA…

I NUMERI DELLA RETE, IL MONDO «BIANCO» & ALTRO ANCORA…

I «numeri» della rete distributiva che UNIONE PETROLIFERA ha dato nei giorni scorsi hanno stimolato i commenti della stampa specializzata di settore che spaziano in uno spettro di opinioni assai ampio, affrontando non solo la «contabilità» della rete – che viene sviluppata anche da FIGISC ANISA nell’articolo finale di questo stesso numero -, ma interpretando anche le tendenze ed i problemi di prospettiva, non senza traguardare anche i rapporti con il tema dell’illegalità.

Cominceremo dalla citazione di quanto scrive QUOTIDIANO ENERGIA sull’ultimo numero pubblicato, venerdì 25.11.2016 [«E se la rete italiana fosse la più moderna d’Europa?»]:

«L’Unione Petrolifera ha pubblicato la stima annuale sulla consistenza e composizione della rete di vendita carburanti in Italia. La discesa del numero di impianti prosegue. Per un’analisi più di dettaglio è interessante analizzare i dati degli ultimi dieci anni. Il perché della scelta di questo lasso di tempo deriva dall’opportunità di collegare l’analisi alla “esplosione” del fenomeno degli impianti no-logo. Nel 2006 gli impianti che portavano i colori dei principali marchi (si può supporre le compagnie petrolifere), risultavano 21.430 e quelli definiti come “altri” (i no-logo) erano 1.020, per un totale di 22.450. Nel 2015 il numero dei primi è di 17.187 con un calo di 4.243 unità, mentre i secondi consuntivavano 3.813 punti vendita con un aumento di 2.793 unità. Totale 21.000, con un calo di 1.450 impianti.

È evidente che un preponderante numero di “nuovino-logo sono impianti di privati in precedenza convenzionati (affittati) alle compagnie. Molti di questi sono probabilmente a basso erogato e/o incompatibili, e ritenuti non in grado di reggere la competizione commerciale. Alcune compagnie hanno scelto di avere impianti completamente self, in diretta concorrenza con quelli no-logo e della Gdo. Una scelta che forse non incontra i favori di una parte non piccola di consumatori che privilegiano ancora gli impianti con il servito.

Questa  fotografia mostra come il mercato italiano abbia intrapreso la via della razionalizzazione indotta dell’aumentata competizione commerciale.

La vera modernità è rappresentata dalla possibilità di scegliere. In quest’ottica ci si può spingere a dire che la rete italiana è (forse) la più moderna d’Europa».

Più complesse le considerazioni svolte da STAFFETTA QUOTIDIANA sempre sull’ultimo numero pubblicato, venerdì 25.11.2016 [«Carburanti, più bianco non si può?»]:

«In dieci anni il numero delle “pompe bianche” è quasi quadruplicato, la quota di mercato quintuplicata, sfiorando il 25%. Nell’ultimo aggiornamento delle statistiche sulla composizione della rete carburanti in Italia, diffuso qualche giorno fa dall’Unione Petrolifera, gli impianti “bianchi” risultano essere quasi quattromila a fine 2015, con un aumento di quasi il 20% rispetto al 2014. Nella banca dati dell’Osservaprezzi la voce “pompe bianche” è la prima “compagnia” con oltre 4.000 punti vendita, più di Eni. Nel frattempo i punti vendita delle compagnie sono scesi di altre 300 unità, portando la riduzione totale a 2.100 in cinque anni. E certo non mancano i segnali di disaffezione rispetto al mercato italiano, affaire TotalErg in primis.

Detto tutto questo, e detto che tutti i segnali sembrano andare in una direzione, quanto lontano può spingersi questa evoluzione? Arrivati a una certa massa critica, i retisti dovranno fare i conti con questioni che finora sono rimaste appannaggio esclusivo delle petrolifere, in primis il nodo  dell’approvvigionamento in proprio sui mercati internazionali.

Un lavoro che in molti guardano più con sospetto che con interesse. Chi ci ha provato, si sente spesso dire, si è scottato: tra impegni finanziari gravosi, abilità diverse da quelle della distribuzione e capricci dei mercati internazionali, i rischi sono ancora eccessivi per operatori che hanno fatto dell’agilità delle strutture la propria caratteristica vincente.

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Il mese scorso a Verona [N.d.R.: alla manifestazione Oil&Nonoil] ci si interrogava proprio sulla necessità di fare un salto di qualità, ma l’idea che sembrava emergere era più nel senso di una complementarità con le società petrolifere. Un’idea che ha diversi punti di contatto con il modello grossista della Esso. Il presidente Gianni Murano, in occasione della celebrazione dei 125 anni della Esso Italiana, svoltasi in settimana a Roma, ha confermato la ferma volontà di restare in Italia soltanto con il marchio e il marketing perché, ha detto, “sono storicamente i nostri due punti di forza”, mentre “lasciamo fare il lavoro di gestione a chi lo sa fare meglio”. E cioè i retisti.

Sarà dunque questa una delle caratteristiche della “divisione del lavoro” nella rete del futuro. Ma non mancano i segnali di una rinnovata voglia di protagonismo delle compagnie, a partire dal fatto che Eni, per la prima volta dalla sciagurata vicenda degli scontoni nel 2012, ha ripreso nell’ultimo trimestre a guadagnare quote di mercato.

C’è infine da considerare che, almeno in parte, il boom delle pompe bianche ha tratto vantaggio dal diffondersi di pratiche illegali nella filiera dell’approvvigionamento. Il moltiplicarsi dei fornitori, dei depositi, dei trader, ha di fatto aperto un secondo potente canale di approvvigionamento, spingendo molti operatori (soprattutto piccolissimi ma non solo) a “mettersi in proprio. Se le misure sull’illegalità andranno in porto e saranno applicate con efficacia e rapidità, la parte del fenomeno delle pompe bianche che ha sfruttato questi interstizi rimarrà a secco. E già le ultime operazioni più sistematiche e incisive da parte della Guardia di Finanza hanno avuto un effetto deterrente su chi si era mossi in modo troppo spregiudicato sul fronte degli approvvigionamenti».

Può anche essere che l’elemento di modernità sia la possibilità del consumatore di scegliere, ma vi sono più che abbondanti ed evidenti motivi di maturità [anzi di obsolescenza] della rete italiana, la più pletorica, la più «oilcentrica» e la più inefficiente quanto alla capacità di sviluppare erogati e di fornire servizi diversificati, tra tutte quelle dei Paesi più importanti. D’altro canto, lo sviluppo di un modello di «divisione del lavoro», cioè di terziarizzazione della fase finale della distribuzione, è un processo già da tempo in atto [lo dimostra se non altro la virata di molti convenzionati, nati da questa suddivisione dei compiti, verso il modello indipendente], e, per come esso viene declinato dalle compagnie, non può che riprodurre ed ha già riprodotto, solo su scala più ridotta e moltiplicata per molti più soggetti, quasi tutti i fattori di difficoltà già emersi per le majors del settore.

Senza contare che il mercato, ormai, non si tara affatto sulla rete e nessuno, né grande né piccolo, né «legale» né «illegale», sfugge a questo semplice fondamentale.

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